Centocinquant’anni fa nasceva a Trieste Arturo Rietti,
ritenuto dalla critica più autorevole il maggiore pittore cittadino dell’epoca
a cavallo tra Otto e Novecento assieme a Umberto Veruda, suo compagno di studi
all’Accademia di Monaco. Il Museo Revoltella possiede una ventina di opere
significative dell’artista che da qualche giorno sono esposte in una sala del
terzo piano della galleria d’arte moderna. Si è ritenuto giusto celebrare
questo anniversario con un piccolo omaggio al pittore, su cui nel 2009è stata pubblicata una importante monografia,
per le edizioni della Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste a cura di Maurizio
Lorber.
Di seguito alcune notizie biografiche. Arturo Rietti nasce a Trieste il 3 marzo 1863 da
Alessandro Riettis, commerciante greco di fede ebraica ed Elena Laudi,
appartenente ad una agiata famiglia triestina, anch’essa di origine ebraica. Si
forma in un ambiente cosmopolita e studia sin da giovanissimo il tedesco, il
francese, il greco, il latino ed in seguito anche l'inglese. Deciso a fare il
pittore, fra il 1882 e il 1884 si trasferisce dal fratello maggiore Riccardo a
San Giovanni Valdarno, dove si cimenta con dipinti in stile verista di
contadini e operai della zona e trascorre le giornate frequentando Firenze e la
Toscana, non seguendo però alcun regolare percorso formativo. In quegli anni
Rietti è influenzato dai pittori triestini delle generazioni che l'hanno
preceduto, in particolare dai ritratti di Eugenio Scomparini e di Giuseppe
Barison, e dai soggetti della "pittura di genere” che si andava affermando
nell'Italia centrale nello stesso periodo. Gli schizzi a carboncino e a matita
di questa fase già mettono in luce l'interesse per i volti e gli atteggiamenti
della gente comune, che lo caratterizzeranno anche negli anni successivi. Una delle sue prime
opere note è il “Ritratto della madre”, datato 1883, ora al Museo Revoltella di
Trieste. Nel 1884 Rietti si iscrive all'accademia di Monaco di
Baviera, sostenuto dalla madre e dalla nonna, nonostante il parere contrario
dello zio Vitale Riettis, suo tutore dopo la morte del padre. Lì segue le
lezioni di Franz von Defregger e del greco Nikolaus Gysis e frequenta gli altri
studenti triestini, cioè Umberto Veruda e Riccardo Carniel (nel libro delle
matricole dell’Accademia risultano tutti e tre iscritti nello stesso giorno, il
15 ottobre 1884). Nel contempo si dedica alla sperimentazione di diverse
tecniche, tracciando su taccuini, che porta sempre con sé, disegni di volti e
figure e scrivendo annotazioni e appunti. Rietti in quegli anni tira anche di
scherma. Più
tardi Silvio Benco avrebbe scritto: “I due più forti temperamenti che abbia
dato Trieste si fanno innanzi, Umberto Veruda e Arturo Rietti…. Il secondo si
ricollega piuttosto alla rivoluzione pittorica lombarda di Tranquillo Cremona e
da essa intraprende il cammino misterioso verso il sogno rembrandtesco. Il
Rietti è dominato dalla contemplazione interiore, e per quanto intransigenti le
sue grandi macchie, per quanto evidente nel segno la nervosa risolutezza della
mano, egli opera soltanto per reintegrare un’armonia che è nel suo temperamento
soggettivo di sognatore non meno che nella sua squisita visività. Egli è
ansioso di un problema solo: l’espressione dell’anima umana e s’è lamentato
della vita breve che non concede di rivelare almeno mille donne nell’arte.”Conclusi gli studi monacensi nel 1886, lo troviamo a Milano, dove espone
alcuni lavori. Ma ben presto si fa conoscere come pittore anche a Trieste. Nel
giugno 1888 presenta nel negozio di Giuseppe Schollian in via del Ponterosso un
pastello raffigurante Leone Segrè e poco tempo dopo vi compaiono anche delle
sue piccole vedute, definite dai giornali cittadini “impressioni”. Nei
soggiorni a Milano perfeziona la sua tecnica, che diviene sempre più rapida ed
incisiva, e sviluppa una predilezione per l'uso del pastello. Nel capoluogo
lombardo, inoltre, Rietti entra in contatto con i pittori Mosé Bianchi, Pompeo
Mariani e Ambrogio Alciati e diventa amico di Emilio Gola e dello scultore Paul
Troubetzkoy. Inizia il periodo della partecipazione di Rietti ai Saloni: nel
1887 espone a Milano presso la Permanente, due anni dopo all’Esposizione universale
di Parigi, dove riceve la medaglia d’argento per un “Ritratto di vecchia
signora” e, nell’ultimo decennio del ‘800, anche a Monaco, al Glaspalast e alla
München Secession, ottenendo pure in Baviera un buon riscontro di critica, e guadagnando
addirittura la medaglia d’oro di II grado con uno “Studio di giovinetta”
all'esposizione del 1891.
Dal 1893 al 1898 espone con regolarità a Milano, ma è
presente anche a Trieste, dove per un periodo ha uno studio nella monumentale
cupola di Palazzo Carciotti, da cui riprende la suggestiva veduta “Trieste.
Dalla terrazza di Palazzo Carciotti” del 1894 ora conservata al Museo
Revoltella. Più tardi cambierà spesso atelier spostandosi in diverse zone della
città.Nel 1895 si sposa con Irene Riva e nel 1896 nasce la figlia Anatolia. Alla
fine dell’anno presenta sette opere all’esposizione del Circolo Artistico
triestino mentre nel 1896 compare da Schollian il “Ritratto del conte
Sordina”.Appassionato di scherma,
ritrae nello stesso periodo lo schermidore Alberto Minas.Nel 1897 partecipa
alla II Biennale di Venezia con due studi di testa, mentre all’anno dopo risale
il “Ritratto di Francesco Basilio” ora al Museo Revoltella. Nel 1903 viene
elogiato dalla critica viennese per le diciassette opere a pastello (con
ritratti di Teresa Junk Garbagnati, Gabriele d’Annunzio, Rembrandt Bugatti,
Carlo Lamberti, Arturo Toscanini, Giacomo Puccini) che espone alla galleria
"Miethke" In quel periodo Rietti vive infatti tra Milano, Vienna,
Parigi e Trieste. Ma è nel capoluogo giuliano che svolge principalmente la sua
attività: affina qui la sua tecnica che si fa mista, unendo il segno grafico
del pastello a quello pittorico della tempera. Rietti si dedica principalmente
all'arte del ritratto che, a suo dire, deve rivelare "una verità segreta,
profonda, dell’anima del soggetto". Contemporaneamente il pittore annota:
"La pecca del ritratto sta in questo: che si deve fare anche quando si
vorrebbe fare altro, e che deve piacere al padrone e alla serva, e deve piacere
subito". Nel 1905 è ancora presente alla Biennale di Venezia, nella “Sala
veneta”, con due ritratti femminili e uno studio. Sono datati 1907, invece, il
ritratto a figura intera della contessa Sordina, ora al Museo Revoltella, e il
delicato pastello che raffigura Livia Veneziani Svevo. A proposito di questo
ritratto si conserva un’interessante lettera scritta da Rietti a Italo Svevo:
“Caro signor Schmitz, inutile che ella protesti. Sono un mascalzone. Ma pure
senza colpa nell’animo, mi creda. Sono la vittima di un maledetto incarico
assuntomi tanto tempo fa. Esso mi ha fatto lasciare indietro i compiti più
belli a cui mi ero accinto col piacere più grande. Di ora in ora speravo di
finire ma è come un incantesimo. Non riesco a liberarmi da quel terribile,
antipatico, lavoro. Ora devo allontanarmi per pochi giorni da Trieste. Spero di
trovar qui la Sua signora al mio ritorno, per finire il ritratto intorno a cui
ho lavorato di memoria. Ma se ella dovesse essere partita, Le correrei dietro
dove che sia perché ci tengo assai a questo studio. E spero di poterglielo
provare col modo in cui lo farò.” Rietti partecipa con altri due ritratti (Giannino
Antona Traversi e Signora Kruceniski) alla IX Biennale, cioè all’edizione del
1910 che ospita la famosa “Sala della città di Trieste”. Tuttavia nel suo catalogo di questi anni che precedono
lo scoppio della guerra non ci sono soltanto affascinanti dame dell’alta
borghesia, ma anche personalità della cultura e della politica triestina, come
Attilio Hortis, patriota e direttore della biblioteca civica, al quale dedica
un ritratto nel 1914. Mentre è una testimonianza importante delle sue
frequentazioni milanesi il ritratto che nel 1911 gli dedica lo scultore di
origine russa Paul Troubetzkoy un bel busto in bronzo ora esposto al Museo
Revoltella. Su quest’opera si sofferma Salvatore Sibilia, che nel 1922 gli
dedica un capitolo del suo “Pittori e scultori di Trieste” incentrato su una
visita che gli aveva fatto poco prima. “Quando, tornato da Milano, andai al
Museo Revoltella, mi fermai un poco innanzi al “Ritratto di un prete” e a “La
mia bambina” di Arturo Rietti e alla sua immagine fusa in bronzo da Paolo
Troubetzkoy. Mi fermai: e il bronzo del russo scomparve innanzi al mio occhio:
la figura di Arturo Rietti mi si animò all’improvviso: mi parve di rivederlo,
con i suoi occhiali inforcati, e la mano sulla guancia, al tavolo della sua
stanza d’hotel parlarmi dell’inutile attività dei critici d’arte….” Nel 1925 espone insieme ad Arturo Mancini presso la
galleria "Pesaro" di Milano e le sue opere sono ricordate in un
articolo da Raffaello Giolli. In quel periodo, nei suoi immancabili taccuini,
Rietti inizia a rivelare le sue perplessità sull'arte contemporanea, di cui
avverte il cambiamento senza però comprenderlo: le sue preferenze (ancora nel
1932) restano Edgar Degas, Eugene Carrière e Max Liebermann. Nonostante
l'evoluzione del gusto, le commissioni non gli mancano, soprattutto da parte
della borghesia, che gli richiede ritratti tradizionali per i propri salotti.
Rietti continua quindi a spostarsi da una città all'altra, pur restando
fortemente legato a Trieste, dove si stabilisce nuovamente nel 1933 presso il
Foro Ulpiano e nel 1936 espone ancora presso la galleria "Trieste". Alla
morte della moglie, nel 1940 si sposta da Trieste a Milano, che lascia poi per
timore dei bombardamenti per rifugiarsi presso la famiglia Gallarati Scotti a
Fontaniva, ritrovo di intellettuali antifascisti come lui, fermo oppositore del
Regime sin dagli inizi e soprattutto dopo le leggi razziali. Malato di diabete,
che gli causa forti e costanti dolori al piede, muore a Fontaniva il 6 febbraio
1943.
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