LA SCIA DELL'ONDA, IL RITMO
DEL VOLO. Il profilo creativo di Jagoda Buić
I.
Sin dai suoi inizi Jagoda
Buić ha trovato un suo filo conduttore. In tutte le discipline e le tecniche in
cui si è cimentata ha seguito i percorsi di una fantasia senza costrizioni, che a
sua volta si è nutrita del lume delle prime visioni e confermata dall'abbraccio
delle forme create.
Il suo lavoro
per ampiezza di estensione e larghezze di operato ha, senza dubbio, dimensioni
cosmopolite ed un carattere nomade, ma è anche per ispirazione radicato nella
sinuosità dell’ambiente mediterraneo e determinato, grazie a considerevoli
impulsi formativi, anche dalla ricchezza della storia familiare, dalle
frastagliature della nativa Dalmazia e dall’apertura culturale del Circolo
delle Belle Arti di Zagabria (negli anni ’50 del secolo scorso); per il
complesso dei suoi risultati rappresenta quindi un tratto inevitabile dell’arte
moderna croata, ovvero una tappa significativa di un’adesione alle correnti
universali all’interno dell’ambito della società socialista federativa
jugoslava. >>>
Ma l’aspetto
più importante è indubbiamente il fatto che Jagoda Buić, grazie all’originalità
del suo approccio ed all’individualità delle sue conquiste, ha oltrepassato le
limitate coordinate regionali e nazionali, ed ha energicamente situato il suo
lavoro nel contesto mondiale delle opere spazio materiche, quali installazioni
sui generis, nella storia universale della “tapisserie” (come pure di quei
complessi sculturali e plastici adattati a luoghi specifici) per il
considerevole arricchimento delle possibilità espressive del linguaggio
artistico.
È molto
indicativa anche la sua primordiale bipolarità, dato che ha investito in quasi
eguale misura parte della sua creatività nell’allestimento e nella creazione
degli spettacoli teatrali, quanto pure nella produzione di oggetti autonomi
(“tapisserie” e rilievi, statue stanti ed autonome, gruppi scultorei ciclici)
destinati agli spazi delle gallerie e delle mostre (come pure ad ambienti di
funzione pubblica).
Questa dualità
è nel contempo molto fertile ed ispirativa, perché collega l’aspetto passeggero, inaferrabile e
sonnesco dello spettacolo scenico, con il carattere forte, stabile e materiale
dell’oggetto della cristalizzazione creativa. Le scene ed le fantasticherie che
si conseguono in successione nella vita del palcoscenico sembrano, per così
dire, confluire e fissarsi nei solidi oggetti delle opere d’arte, oppure, a
loro volta, le masse ed i volumi delle sculture e della “tapisserie” prendono
vita nelle emanazioni sceniche. Mentre frapposto, fra gli uni e gli altri, sta
il correlativo del corpo umano, misura dei passi e dell’estensione, suggestione
del coprirsi e del denudarsi, idea del cambiamento e della metamorfosi.
La componente
della corporeità è riconoscibile non solo negli incarichi da costumista
direttamente applicati, oppure nelle soluzioni scenografiche per nulla meno a
misura d’uomo, in cui anche il corpo è il modulor, ma pure nella gran parte
delle realizzazioni autonome, orientate esclusivamente all’estetica. Sono
infatti caratterizzate da un indubbio vitalismo e da una forza energetica, e se
non proprio da un espresso antropometrismo, allora perlomeno da ciò che è
organico e arrotondato, da una fusione reciproca fra gli elementi. La vita,
dicono, è rotonda, spirale, vorticosa.
Le forme di
Jagoda Buić, data la sua propensione per l’organico e la biofilia, sono a loro
volta in uniformità con i fenomeni naturali, con le primitive manifestazioni
terrestri delle forze animatrici. È la forza del vento che muove l’aria, l’alta
e la bassa marea che, assieme al vento, mettono in attività il mare, è il fuoco
che spinge ed innalza il fumo.
Così come gli
uccelli ed i pesci si adattano alle condizioni della natura, di volta in volta
traggono vantaggio o evitano le mirabili forze del vento, dell’acqua o del
fuoco, così pure l’uomo cerca di attraversare la vita in armonia tra forze
contrastanti, nel potente centro dei loro comuni influssi, ed osserva quindi i
corsi ed i potenziali delle masse d’acqua, dell’aria che si muove, della fiamma
che si leva in alto, cercando di capire i principi originari delle cose.
Jagoda Buić è
contrassegnata nella sua essenza dalla visione dell’elemento marino,
impressionata dal luccichio della superficie, dalla penetrazione e
dall’intravvedersi delle profondità, impregnata dall’esperienza del
ripiegamento e della rifusione delle onde ululanti e spumeggianti. Nei suoi
primi ricordi vengono serbate le immagini primordiali degli increspati
bassifondi scintillanti e del mare aperto burrascoso ed accigliato. Un qualcosa
come il respiro del mare, una sinusoide di sollevamenti e ribassamenti, una
sistole d’azzurro e una diastole di bianco, che sono diventati un modello
ritmico della visione dell’universo dell’artista.
Sarebbe eccessivo
affermare che ella segue la scia dell’onda, perché nel suo lavoro non v’è nulla
di letterale, di illustrativo, di imitativo, ma sarebbe erroneo negarle il
rapporto allusivo-associativo con l’elemento marino e con il principio del
movimento modulatorio. Lo stesso dicasi anche per il suo rapporto con il vento,
che ha usato nel modo più diretto per mettere addirittura in moto una delle sue
ingegnose soluzioni ambientali: Sole,
sabbia, suono, (Sunce, pijesak, zvuk)
videoregistrato nel 1983, mentre gli si
è rivolta anche in una scultura di metallo, La
rosa dei venti (Ruža vjetrova),
del 1987, posta nel porto di Spalato con
l’intento di richiamare la sua voluta mobilità.
Troveremo una
ancor più grande confidenza col vento nei continui ricordi di uccelli, e non
tanto nelle loro forme o nelle loro membra, quanto nelle traiettorie e nelle
amplitudini del volo. Nel disegnare ed abbozzare, la mano di Jagoda Buić quasi
d’istinto evoca gli stormi e le ali, lo sbattere e l’aleggiare, mentre nella
successione delle realizzazioni tridimensionali ci sembrerà come di riconoscere
le penne e le piume. Troveremo una particolare e privilegiata linea di cattura
del vento nel ricordo della messa in moto delle navi, del bianco tessuto delle
vele e di tutto il sistema della velatura (le corde, gli ormeggi, i nodi),
indispensabile affinché si passi da una posizione statica ad un rapporto
dinamico. Molte delle composizioni di quest’autrice rappresentano
un’elaborazione ingegnosa ed autonoma degli oggetti e delle scene che offre il
paesaggio litorale e l’ambiente ammansito dei luoghi nativi, motivi di cui la
maggior parte conserva dentro di sé uno sfondo archetipo, ovvero arcaico,
mitico, una dimensione emblematica.
Dalla riva
Jagoda Buić ha vissuto più intensamente i contrasti della luce e delle ombre,
lo specchiarsi del cielo nel mare e lo distendersi del mare aperto
all’infinito. Ma quando ha volto lo guardo, in quella stessa oriunda Dalamazia,
dall’altra parte del monte, nell’entroterra (nella terraferma), si è trovata di
fronte ad un fenomeno simile di distesa unificata, ad un singolare mare di
pietre, alla scabra ondosità dei campi avari e dei pendii brulli.
Quest’esperienza complementare del paesaggio (analoga a quella di Mušič) ha
contribuito dal suo canto alla sua sensibilità materica e al capire che è
possibile, nella monocromia riduttiva o nella sfumata variazione dei toni,
realizzare il massimo dell’espessività.
II.
Nella
maturazione dell’artista molti sono i fatti accaduti velocemente e con impeto.
Abbiamo accentuato le premesse regionali, ma non vorremmo dar loro un peso
deterministico, poichè esse sono solo alcune delle componenti della sua
completa formazione. Il fatto che sia nata a Spalato, nella città di
Diocleziano, e che abbia potuto ricevere nella casa familiare solide fondamenta
nell’istruzione, non è molto più importante del suo precoce trasferimento a
Dubrovnik dove ha frequentato la scuola, così pure come il Centro Sperimentale
di Cinematografia (Cinecittà) non ha avuto su di lei effetti più decisivi dell’Accademia
di Vienna (für Angewandte Kunst).
In ogni caso le
sventure della Seconda Guerra Mondiale e le sciagure del dopoguerra hanno
motivato Jagoda Buić a reagire istintivamente nell’immediato e a compensarle
traendo profitto dalle possibilità di una più vasta istruzione che le si
offriva saltuariamente e senza regolarità. Dopo aver finito ancor da bambina la
scuola di musica e quella di danza, imparò le lingue straniere e da sedicenne
frequentò un corso di disegno presso il pittore Ante Kaštelančić per entrare in
scena come costumista, all’ultimo anno del liceo, al teatro di Spalato. Un così
precoce inizio nel mondo della creatività è un precedente singolare, certamente
di grande stimolo per delle esigenze massimali.
Non è affatto
nostra intenzione diminuire il valore delle esperienze che Jagoda Buić ha
ricevuto a Vienna e a Roma (come pure a Venezia), dato che pochi dei suoi
coetanei hanno avuto da subito delle linee guida europee ed hanno avuto il
prospetto della possibile sintesi pedagogica mediterraneo- mitteleuropea (nel
campo delle arti applicate), ma riteniamo che per lei non fu per nulla meno
importante e fortuito, sebbene di breve durata, lo studio all’Accademia di
Belle Arti di Zagabria – allora appena fondata e ben presto chiusa – dove si
era iscritta nel 1949. E non vorremmo nemmeno decidere se nella questione erano
più importanti i professori, rinomati e motivati, oppure invece l’atmosfera
collegiale creata da quel gruppo di giovinetti d’eccezionale talento. Eppure vi
dominava probabilmente l’entusiasmo di un pensare più libero, l’abbandono del
dogma del socialrealismo e l’apprendimento delle leggi e dei segreti del
modellare. Sebbene disponesse di notizie da più fonti ed ambienti, Jagoda Buić
riconosce volentieri il significato dei suoi primi incontri zagabresi. Curiosa
ed ambiziosa si era iscritta agli studi di Storia dell’Arte, anche se era molto
più attratta dagli stimoli degli ateliers, e visitava non solo i suoi eminenti
insegnanti (lo scultore Kosta Angeli Radovani, l’architetto Vjeceslav Richter,
il pittore Ernest Tomašević, la mentore Branka Frangeš Hegedušić), ma gli
allora giovani artisti d’avanguardia radunati attorno al gruppo EXAT 51
(accanto a Richter vi troviamo Picelj, Srnec e Kristl), intenti alla poetica
costruttivismo-razionalista, ovvero all’ “astrazione geometrica”.
Quando nel
1954, dopo essersi laureata a Vienna (con il primo premio per la tesi di
laurea), sarebbe tornata in patria, non sarebbe stata accolta a braccia aperte,
ma avrebbe saputo ben presto combattere per procascciarsi la possibilità di lavorare – anche se solo in
un settore limitato della costumistica (con appena qualche sfida scenografica).
Ma Jagoda Buić non si sarebbe lasciata andare all’apatia o all’inerzia, ma
sarebbe cresciuta con ogni compito in audacia e determinatezza, sviluppando
sempre di più uno stile personale ed una marcata nitidezza del tutto vicina al
modernismo radicale. E mentre andava diminuendo il fattore della verifica
storicistica e riconduceva i modelli dei vestiti all’essenziale ed al funzionale,
aveva sviluppato ed arricchito considerevolmente i valori tattili e visivi. Da
una parte aveva conferito ai suoi costumi la bellezza dei tratti sintetici ed
il carattere del marchio spaziale, dall’altra li aveva esposti e “caricati”
espressivamente di qualità materiche. Potremmo insomma concludere come abbia
applicato su una base minimalista le conquiste dell’arte informale.
Collaborando
con i migliori direttori di scena nel nostro ambiente aveva logicamente
rafforzato la coscienza del proprio valore, e li aveva nel contempo costretti
sempre di più ad accettare i suoi punti di vista e le sue soluzioni, spesso non
ortodosse e non convenzionali. Certamente la freschezza e la nitidezza dei
costumi di Jagoda Buić dipendono anche dal carattere del tessuto di base: nel
“pezzo da salotto” non sono possibili interventi rilassati come in una storia
mitica, in una favola o in un’escursione fuori dal tempo.
In veste di
testimone privilegiato ho avuto l’occasione di vedere diversi dei “primi
lavori” dell’autrice, numerosi suoi disegni e costumi nel Teatro Popolare
Croato di Spalato nella seconda metà degli anni Cinquanta. In accordo con la
politica di repertorio erano particolarmente soventi le rappresentazioni di opere ed operette, il
che dava la possibilità di allontanarsi maggiormente da un abbigliamento standardizzato e
tipicizzato (L’Otello, Il Rigoletto,
Turandot, La Gioconda, L’Orfeo, L’Equinozio, L’Olandese Volante, La Bella Elena),
e non mancavano neppure gli spettacoli di danza con pure costumi fantasiosi ed
intesi più liberamente (Lo Straniero,
Romeo e Giulietta, Giselle, Coppelia). Delle rappresentazioni contemporanee
in costume ricordo in special modo Il
Pallone Colorato (Šarena lopta) di Torkar, La Rosa Tatuata di Williams, senza omettere i soggetti classici
attualizzati, come lo sono L’Antigone di
Anouilh e L’Eracle di Matković.
Ma è
negli autentici brani dell’antichità che Jagoda Buić ha potuto in modo
particolare lavorare su un terreno a lei confacente. L’Edipo Re di Sofocle, l’Agamennone
e l’Oreste di Euripide erano come
creati per l’evasione in un mondo di ideali sublimi e veementi polarizzazioni,
il che ha dato come risultato dei forti contrasti, una differenziazione dei
personaggi quasi manichea, una separazione dei singoli personaggi e un’omogeneità
dei cori. L’opposizione fra il denudato ed il troppo vestito, la
giustapposizione tra tessuti lucenti ed opachi, o tra lisci e pelosi, ha dato
vita ad effetti drammatici visivi, mentre la riduttività, l’avarizia,
l’asprezza degli attributi utilizzati era come se avesse contribuito alla funzione catartica.
In
quegli stessi anni Cinquanta l’artista si incontrò creativamente con molte
opere di Shakespeare e di Držić, il commediografo e lo scrittore di tragedie
cui sarebbe rimasta fedele per tutta la vita, ritenendoli congeniali al suo
modo d’intendere la scena. Dopo una serie di proposte e soluzioni nel ruolo di
costumista (L’Amleto, Il Re Lear, Tirena,
Grižula), sarebbe seguito anche l’allestimento di coordinate scenografiche
(L’Avaro, Lo Zio Maroje, La dodicesima
notte, Come vi piace), per cimentarsi finalmente anche nell’allestimento
completo sul palcoscenico di Riccardo
III, conquistandosi anche l’incarico di regista. Nei progetti ed abbozzi vi
sono concepite varie messinscene ed interi equipaggiamenti di rappresentazione.
III.
Dopo aver
vestito un’intera legione di re e servitori, dame e soldati, profeti e
pastorelle, fannulloni e belle donne, ladri e ballerine, galantuomini ed
assassini, e avendo assunto la padronanza di una estesa maestria nel vestire e
nel cambiare vestiti, nel taglio e nel cucito, nella tessitura e nel ricamo, la
nostra artista aveva voluto investire l’esperienza acquisita in una disciplina
d’arte figurativa più autonoma, più libera e con più immaginazione, al di là
dell’applicazione, della collaborazione e del servizio ad una visione altrui,
sebbene questa fosse complementare o solidale.
Era assolutamente cosciente del sapere acquistato e dell’innata
sensibilità, specialmente della propria raffinata percettività per il filo e
per la fibra, per la ciocca e per il nodo, per il nastro e per l’intreccio, per
il bioccolo e per la lanugine (per dirla come Kurelac).
All’inizio
degli anni Sessanta aveva iniziato a comparire con peculiari rappresentazioni
tessili, degli accumuli densi e compatti in tessuto di lana, organizzato in
strati coerenti che ci offrivano segnali congrui – in parte geometrizzati, in
parte biomorfi. In realtà era come se avesse appeso al muro parti di uno dei
suoi eccezionalmente ricchi ed articolati costumi, di complesse composizioni di
toni chiari e scuri, sfarzosi quadri di materiale rigoglioso e ruvido. Già
nelle prime “tapisserie” ancor più espressiva della suggestione iconica era la
consistenza, la nervatura, la fattura del materiale. Non si trattava quindi di
un accorgimento formale, bensì di un comunicare tramite un mediatore più
affine, appreso in stretto contatto con il lavoro e nel vissuto.
La nascita
della “tapisserie”, nel caso di Jagoda Buić, veniva dallo spirito della
tragedia. Apposta parafrasiamo il famoso sintagma di Nietzsche senza aver paura
di esagerare. Basti ricordarsi delle sue lapidarie e congeniali soluzioni
ideologiche nell’allestimento dell’Antigone
e dell’Amleto, delle sue variazioni,
operate in veste di costumista, sui vestiti di lana rosso scuro per la serie
dei personaggi nell’Amleto, dei suoi vestiti pastorali e bucolici di lana
caprina per Grižula e Pavlimir, dei suoi paramenti e piviali
per la Rappresentazione di San Lorenzo
martire (Prikazanje svetog Lovrinca
mučenika). Guardando questi spettacoli ed osservando le “tapisserie” a sé
stanti della stessa autrice, avevo da tempo affermato che li collegasse lo
spirito dei rituali.
Non è del resto
possibile una connessione anche tra la “tapisserie” intitolata Volti dal Macbeth (Lica iz Machbetha), nella composizione spaziale dei tre elementi,
con le associazioni minacciose all’aldilà, all’insensato, all’infausto? D’altro
canto, già alla prima mostra personale di “tapisserie” (del 1964), Kruno
Prijatelj ne aveva riconosciuto l’aspetto drammatico intensamente accentuato,
ed aveva parlato di un’attutita e profonda nota di afflizione. L’impressione di
severità e di serietà, di dignità e di ineluttabilità che emanano dai lavori di
Jagoda Buić, provengono dal suo collegarsi al patrimonio antico, alla
morfologia ed al simbolismo che arrivano dalla profondità dei tempi. E ciò si
riferisce in particolar modo alla sostanza della lana e – sottinteso – al
sacrificio degli animali, da cui ci concateniamo alla civiltà arcadica e
pastorizia. Rammentiamoci che la parola tragedia viene dal termine greco per
capro (tragos).
Per un breve
periodo le “tapisserie” erano state legate esclusivamente al muro, erano
esistite nell’osservazione bidimenzionale della superficie con appena accennate
le sporgenze dei rilievi, le concavità e le convessioni delle incavature e
delle prominenze. L’inquietudine e la non indifferenza avevano presto portato a differenti soluzioni: i
buchi e le breccie, le crepe ed i tagli avevano impostato un dialogo
privilegiato con il retroscena, avevano dirottato la luce su di uno sfondo
attivo. È indicativa in tal senso Eva
(del 1965), una superficie quadrata densamente intrecciata con una zona
circolare centrale perforata e con un reticolato intrecciato di fili verticali
ed orrizzontali, ma ”accentuata” anche dall’effetto finale di due file di
maglie rotonde.
Già L’angelo caduto (Pali anđeo) del 1966, aveva fatto un importante passo avanti verso
lo spazio. Innanzittutto il suo contorno, come nel Trittico strutturale (Strukturalni
triptih), è articolato dall’alternarsi di diramazioni positive e negative,
ovvero piene e vuote, mentre sul pavimento davanti ad esso spunta (è caduto!)
un articolato accumulo intrecciato che per espansione si allarga per la sala.
Altro passo in avanti è rappresentato dal Polittico
(Poliptih), del 1966, una
composizione circolare appesa al soffitto, somigliante ad un battiscafo
sottomarino o ad una navetta spaziale: si tratta in ogni caso di una forma
dalle caratteristiche fantastiche e da un carattere enigmatico inquietante. Ma
i lavori dell’artista hanno conseguito un nuovo stato ontologico ed una nuova
qualità tipologica quando non hanno più avuto bisogno di essere appesi, ma si
sono posizionati “sulle proprie gambe”.
Gli anni
Settanta avevano portato alle soluzioni ambientali più audaci e erano stati
segnati dalle conferme più importanti a livello nazionale ed internazionale. È
difficile enumerare tutte le tappe dei riconoscimenti del suo lavoro su scala
mondiale: la presentazione alla Biennale di Venezia del 1970, cui erano seguite
l’esposizione al Rosc ’71 di Dublino (nel 1971), le lezioni a Detroit nel 1972,
la partecipazione alla manifestazione d’avanguardia a Bordeaux nel 1973, la
partecipazione al simposio sulla tessitura in Canada (nel 1974); ma
l’indiscusso coronamento dei successi internazionali è rappresentato dal Gran
Prix della XIII Biennale di San Paolo nel 1975, ed il Premio Herder
dell’Università di Vienna nel 1976. È il periodo in
cui nascono i complessi monumentali, quegl’impianti cumulatori legati
dall’attrazione, quasi magnetica, delle parti eterogenee da cui sono costituiti.
Il che riguarda per massima misura Ambiente
nero (Crni ambijent) e Variabili
rosse (Crvene varijable), ambo le
opere create nel 1974. Sebbene siano cromaticamente di proposito a confronto,
morfologicamente sono del tutto complementari: si tratta di intrecci cilindrici
e circolari fra i quali scorrono grandi ripiani di tessuti dalle accentuate
perforazioni ovali. Dall’alto tali complessi creano dei labirinti in miniatura,
mentre da una visuale frontale danno uno scambio giocoso di rotondità e di
vuoti.
Ma forse
l’effetto più potente viene dato dall’applicazione sistematica di filati
eterogenei, dai continui parallelismi di andamenti “tubolari” e “scanalati”.
Infatti tutte le superfici intrecciate hanno una suddivisione ritmica delle
linee di forza dominanti, il tessuto negli ingrossamenti forma qualcosa di
simile ad una costruzione scheletrica. Gli elementi “tubolari”, come funi
tirate, si reticolano o si riversano sul piano, mentre la comparazione o
l’incrocio dei loro rapporti differenzia le soluzioni compositive.
Frondeggiare
nero (Crno listanje)
del 1978 e Volumi rossi (Crveni volumeni) del 1980, continuano
sulla stessa dicotomia cromatica e sull’elaborazione problematica delle
particelle concave e convesse, ovvero di aree attive e passive, solo che i
rapporti sono più nitidi, semplificati, mentre i parallelismi delle linee forza
vengono eseguiti ancor più sistematicamente. Nel primo dei lavori citati non è
casuale, nel titolo, l’associazione fitomorfa, così come la suggestione del
titolo Colombo ferito (Ranjeni golub) del 1983, non è
ingiustificata, poichè le ali dell’oggetto, larghe e leggermente piegate, possono rinviare a punti
di partenza biomorfi. Del resto Alberi
azzurri (Plava stabla) del 1980
con il contorno arrotondato delle ricche chiome, richiama irresistibilmente al
modello – l’originale – sebbene non abbia nessuna obbligo mimetico.
Predrag Matvejevic e Jagoda Buic |
I grandi
complessi di Jagoda Buić hanno marcate caratteristiche scultoree, una
voluminosità accentuata e la capacità di attivare gli spazi circostanti, mentre
con la loro incomparabile “epidermide”
oppongono resistenza all’insensibilità della recezione, anzi, incitano
all’approccio tattile. Raccolgono in sé delle particelle quasi portatrici di
vita, oppure si abbandonano a sfide della natura dimodoché, neppure i titoli,
che li legano ai fenomeni originali, non sono troppo pretenziosi. Ad esempio: Di sole, di pietra, di sonno (Od sunca, od kamena, od sna) del 1973,
oppure Forme nel vento e nell’acqua (Forme na vjetru i vodi) del 1973. Il
secondo lavoro citato giustifica in maniera molteplice il binarismo del titolo, poiché a delle forme
prismatiche sospese, contrappone degli accumuli sferici sdraiati, mentre alla
consistenza robusta e fitta delle parti principali, oppone ciocche sospese e
ciuffi arruffati delle parti inferiori e dei bordi.
Accanto al
simbolismo dei fenomeni naturali, potremmo, in occasione delle “tapisserie” di
Jagoda Buić parlare anche della sinestesia del vissuto, dell’equilibrio o del
contrasto artistico come del correlativo di armonie musicali o di scontri
drastici. L’Omaggio a Stravinsky (Hommage a Stravinsky) del 1977 si
riferisce giustamente all’artista dalle armonie scontrose e dai ritmi non
convenzionali. Il titolo Forma antisonora
(Antisonorna forma) segna con
arguzia la complessa composizione
spaziale di un denso tessuto eterogeneo e di perforazioni forti e disvelte che sembrano assorbire ogni
suono.
Jagoda Buic interviene all'inaugurazione |
Abbiamo visto
che Jagoda Buić preferisce il colorismo intenso dei toni rossi e neri, tutte le
sfumature, per così dire, di Eros e Thanatos, ma sappiamo che è quasi in ugual
misura propensa anche verso il registro acromatico (cui, certamente, appartiene
anche il colore nero). Una frazione particolarmente felice del suo opus è
rappresentata dalle opere in bianco, sebbene in realtà non si tratti di
rilievi, sculture o collages completamente bianchi, bensì di realizzazioni che
preservano la qualità ed il carattere del materiale naturale, sia che si tratti
di lana o di carta. Ebbene, la riduzione che prevede pure la rinuncia al colore,
non fa altro che aumentare l’impressione di originarietà, ed accentuare ancor
di più il fattore della matericità. Quindi tutta la serie di lavori quali Riflessi bianchi (Bijeli odrazi), Paesaggio
bianco (Bijeli pejzaž), Spazi bianchi (Bijeli prostori), tutti del 1977, e poi Cerchio ritmizzato (Ritmizirani
krug) del 1975 e Cerchio dinamico
(Dinamični krug) del 1976,
rappresentano gli esempi di una poetica di ritorno alle origini, radicalmente
avara e, per privazione, fertile. Gli elementi nastriformi, mossi dinamicamente
e posti parallelamente, ma vivamente articolati, sincopati in una loro maniera,
che si contorcono e scorrono dal blocco fondamentale, creano una vera tastiera
di sfumature ombreggiate e di rilievi in chiaro, un piccolo “mare aperto” in miniatura
di onde flessibili.
IV.
Ricordo in
special modo, del tutto inobiettivo, la mostra personale di Jagoda Buić dal
titolo Volume e struttura (Volumen i struktura) tenutasi
nell’estate del 1981 nei Lazzaretti a Dubrovnik, che ho vissuto come una sintesi
del suo potenziale formativo, della sua sensibilità materica e del suo senso
per la posizionatura e per l’allestimento teatrali. Costumi ideali si
mescolavano a figure ritte autonome, mentre le calde ed irte superfici di lana,
di canapa e di sisal, si completavano in armonia con i muri freddi e lisci,
patinati dalla storia. I fili, di origine organica, concatenati e intrecciati,
si rimavano con i parallelepipedi di pietra di composizione inorganica, creando
un insieme impressivo dell’ambiente e dell’interpolazione, della tradizione e
dell’attualità.
Tonko Maroevic, Predrag Matvejevic e Goranka Murtic |
Con questa
mostra l’artista era tornata con forza nel luogo delle sfide e delle
riflessioni creative, chiudendo simbolicamente il cerchio delle grandi tournée
nei centri culturali mondiali. Dubrovnik le offriva molte ragioni per misurarsi
con i sommi criteri, mentre ella accoglieva il suo amalgama di natura e
cultura, il suo trovarsi, per civilizzazione, tra le tangenti occidentali ed
orientali, settentrionali e meridionali. Possiamo anche ritenere significativo
il fatto che idee, spuntate nell’atelier della casa a Kolorina, ad occidente
del centro storico della città, abbiano preso vita in maniera particolarmente
intensa in quei Lazzaretti isolati, funzionalmente e simbolicamente separati,
sul bordo orientale della città.
Non pensiamo
che l’artista, dopo l’indubbia e larga affermazione, si sia addormentata sugli
allori ed abbia diminuito la sua presenza pubblica; l’inizio degli anni Ottanta
ha infatti segnato sicuramente l’apogeo dell’agilità, della recezione, della
motivazione e delle possibilità delle realizzazioni lavorative. Una serie di
circostanze, sia infelici che infelici, ha progressivamente diminuito la
produttività di Jagoda nel campo della “tapisserie”, e quasi completamente
soppresso il suo lavoro da costumista e scenografa. Ma ha ripagato la nativa
Spalato con due congeniali ed integrali allestimenti teatrali, rappresentando
la scena ed i costumi per l’Antigone,
regina a Tebe (Antigona kraljica u
Tebi) di Marović (nel 1981) e per l’Aida
di Verdi (nel 1984), che sarebbero stati un degno canto del cigno in questo
campo, se non avesse, sotto la propria direzione, creato per il Riccardo III (nel 1997) la parte
scenografica e dei costumi, e per il Re
Lear (nel 2001) ancora una serie originale di costumi.
Come risultato
dei successi internazionali, Jagoda Buić passava la maggior parte del tempo
fuori patria, tornando di regola a
Dubrovnik solamente l’estate. Aveva utilizzato i contatti americani anche per
allargare la propria esperienza. L’invito a tenere lezioni in veste di
professore ospite in Florida nel 1983, le aveva dato la possibilità di
cimentarsi in un impianto nello spazio aperto, fino ad allora non sperimentato:
sulla sabbia di una grande spiaggia aveva lasciato che il vento gonfiasse e mettesse
in moto un lungo “tubo” di plastica di un intensa bianchezza e trasparenza.
Naturalmente tale artefatto tubolare era articolato creativamente, ovvero
scandito ritmicamente con l’immissione, a certe distanze, di anelli circolari,
ottenendo così l’arsi e la tesi dell’impianto esposto, che il vento poi muoveva
aleatoriamente, alzava e ribassava in maniera dinamica in diverse direzioni. La
videoregistrazione testimonia l’effetto quasi percussorio dell’opera chiamata Sole, sabbia, suono, una realizzazione che
entra nel rapporto più diretto con il vento e la luce, concorrendo con i
gabbiani ivi raccoltisi, per bellezza ed armonia dei movimenti ondosi.
In Florida ha
lasciato una traccia anche in un materiale più solido, realizzando nel 1986 la
grande “tapisserie” strutturale Uccello
di fuoco (Vatrena ptica) per
l’aeroporto di Orlando. Ha continuato ad esporre con successo a manifestazioni
personali e collettive rappresentative in tutto il mondo (dall’Ohio a Tokio, da
Roma a Parigi, da Praga a Rabat). Ed è sempre all’estero che l’ha colta il
crollo dello stato da cui è partita, di cui sono rimaste vittime i suoi amici e
collaboratori, e si è adoperata nelle operazioni di pace, particolarmente
motivata dal destino dell’assediata Dubrovnik e specialmente solidale con le
vittime in Bosnia (fra cui c’erano anche alcune sue tessitrici – realizzatrici
delle “tapisserie”).
In ogni caso
negli anni Novanta del secolo scorso finisce anche un grande capitolo di questa
disciplina su scala universale, dato che ella, assieme a pochi altri autori,
gli ha conferito la dignità della scelta individuale ed il peso
dell’espressione originale. Liberata dalla funzione illustrativa e dal lavoro
sui cartoni altrui, la “tapisserie” contemporanea ha acquisito una completa
uguaglianza con gli idiomi degli scultori e dei pittori; anzi, anche un
occasionale vantaggio di maggiore innovatività.
Il nuovo
millennio ha significato altresì un nuovo inizio per la nostra artista.
Particolarmente sensibile alla struttura del materiale d’utilizzo, si rivolge
alla carta e al cartone, trovando in essi forse i parenti più prossimi della
lana, della canapa e della juta. Poiché prima di tracciare qualsiasi linea,
definire qualsiasi segno, posare un solo colore, Jagoda Buić deve riconoscere
nello stesso fondamento o “corpo” dell’opera la possibilità di un richiamo e di
una risonanza adeguati, di una risposta co-creativa. E la carta è pure essa
stessa consistenza e tessuto, stratiforme e con sedimenti interni, non è
neutrale né incolore, bensì con particolari tonalità e con una naturale
rilevatura.
La scelta della
carta si è dimostrata particolarmente adatta, dato che ha permesso all’autrice
di creare relativamente in fretta numerose idee, anzi di lasciarsi andare
talvolta anche a saltuarie improvvisazioni. La gamma immaginativa e la libertà
della fantasia di Jagoda Buić hanno forse trovato espressione anche di più
nelle opere su carta (in realtà: dalla carta) piuttosto che nelle “tapisserie”
immesse in un sistema più rigoroso e più coerente. Ciò che più conta è che
anche in questo, per lei nuovo, materiale, ella non ha perso la misura della
disciplina ed il correttivo del gusto scelto,
non si è abbandonata alla facilità ed alla fortuna delle scoperte
casuali, ma ha bensì costruito con logicità e con metodo le ascisse e le
ordinate di un nuovo universo di forme, un mondo figurativo, che si ricollega
il più facilmente alle conquiste e alle portate della “tapisserie”, dei
costumi, della scenografia, delle proposte testuali, del design e
dell’arredamento dello spazio.
Del resto tutto
il panopticon di Jagoda Buić deriva dal carattere non insensibile dei suoi
disegni, parte dal tratto della penna, della matita, del pennarello, che con
schizzi e con temperamento presume i contorni e presagisce i ritmi di future
realizzazioni. Nei suoi notes e nei suoi blocchi ci sono in germe tutte le
opere materializzate, anche quelle non (ancora) realizzate o immaginate
progettualmente, con lo scopo di dar vita ad idee complesse. Tali sono anche i
progetti teatrali, ad alcuni dei quali si è dedicata per anni, sperimentando
sulla carta le loro reali dimensioni, mentre su di altri ha fantasticato e
fantastica da decenni. Tutto ciò parla di una visione integrale e del bisogno
di superare le limitazioni delle singole discipline.
Tornando al
ciclo che ha caratterizzato il recente decennio di lavoro dell’artista, diremo
innanzittutto come sia a ragione intitolato, nella formulazione del poeta Luko
Paljetak, Carta canta. Perché nelle
mani di Jagoda Buić la carta canta veramente, la carta trova il cuo carattere
primordiale, la carta ci si rivolge con le proprie potenzialità espressive. Il
canto della carta è naturalmente figurativo, formativo, originariamente
materico, mentre sta a colui che crea a non venir meno ai valori a lui
immanenti e a non esagerare con il suo intervento a favore del proprio danno, a
non trasformare la carta in un serva, ma bensì in una degna collaboratrice.
Jagoda Buić è
entrata nel dialogo con la carta piena di comprensione. Ella raramente vi
traccia delle linee e del tutto eccezionalmente la colora, ma si serve di tutto
il registro delle sue caratteristiche tattili, della rilevatura, della
consistenza. Il più delle volte crea collages e combina diversi ritagli e
brandelli, collega in un insieme gli elementi sparsi e stracciati.
La carta può
oltre tutto essere stropicciata e piegata, perforata e pieghettata, per non
parlare del fatto che su di essa, più facilmente e con più leggerezza, si
susseguono le impronte dell’annotare intimo. Incollando ed accumulando diversi
strati vengono a crearsi dei veri effetti scultorei. Le pieghe prominenti ed i
bordi affilati rinfrangono la luce in varie maniere, dando la possibilità alle
ombre di diffondersi nelle fessure più o meno profonde, in lunghezze d’onda più
o meno fitte.
Considerando
che il formato dominante della carta è quadrato, gran parte delle composizioni
di Jagoda iniziano con delle premesse di combinazioni ortogonali (rettangolari,
cruciformi, prismatiche, piramidali), ma a dispetto dell’inerzia, la maggior
parte tende a delle formazioni arrotondate, circolari, dimodoché abbiamo potuto
contrassegnare la tensione di molte inquadrature dell’artista anche come un
anelare alla quadratura del cerchio. Tali sono i lavori Segno I (Znak I), Sole (Sunce), Il sole fuggito I (Odbjeglo sunce I),
- non a caso un simbolo fondamentale! – poi anche Preghiera (Molitva), Paesaggio bianco (Bijeli pejzaž), Ombre (Sjene).
Un’altra tendenza prevalente è la strutturale variazione di elementi simili,
geometrizzati, mentre è emblematico in questo senso il lavoro Exat 51 (dedicato all’omonimo gruppo
d’avanguardia zagabrese), mentre lo seguono degnamente Silenzio (Šutnja), Ritmo nero
(Crni ritam), Forme bianche (Bijeli oblici),
Rosso con brio, con tutta una serie
di soluzioni ancor più articolate, rigogliose, veementi.
V.
In più di mezzo
secolo di attività pubblica Jagoda Buić ha creato un opus impressionante, che
rende onore all’ambiente da cui proviene ed opera su scala universale come un
contributo originale e creativo all’arte del XX e del XXI secolo, in un
crocevia di diverse tecniche e discipline. Formata nello spirito dell’alto
modernismo (nel dictat del riduttivismo, della lapidarietà, dell’emblematismo),
ha saputo, nella sua evoluzione e nel suo cammino creativo, sentire i presagi
del tardo modernismo (del minimalismo, dell’ambientalizzazione, dell’Arte
povera) per avvicinarsi, nelle opere più recenti, anche all’esperienza del
mondo e all’agire postmodernisti (dal “pensiero debole”, dal ludismo, al
citazionismo – con un richiamo non dogmatico alle autorità, da Morandi alla
Nevelson).
I costumi teatrali di Jagoda Buic |
Sebbene abbia
assimilato le conquiste dell’avanguardia storica e sia stata presente col suo
lavoro nei centri della cerchia culturale europea occidentale, non ha affatto
accettato in maniera passiva ed imitativa una unica corrente stilistica, né ha
rinunciato ai suoi intimi punti di partenza regionali. Nel suo lavoro possiamo
quindi riconoscere anche la componente di un mediterraneismo pungente ed il
fattore di un cosciente anacronismo (ante litteram). Ella è infatti riuscita ad
innestare, su una base di sensibilità affinata e moderna, anche un lessico
formativo arcaico e mistico. O, viceversa, ha saputo trapiantare nella sua
formazione emozionale dalmato-balcanica (corsaro-pastorizia) le conquiste
dell’approccio critico, razionale e raffinato.
Le “tapisserie”
ed i rilievi-collage (assieme all’impressivo lavoro teatrale) rendono Jagoda
Buić una protagonista della creatività nelle arti figurative, un’artista che ha
creato, mediante risorse avare e originarie, un mondo convincente di forme, una
potente modalità di articolazione dei volumi e degli spazi. È un mondo
cromaticamente per lo più bianco e nero (o rosso e nero), ma tale mondo nella
sua estensione ed organicità non ha nulla di schematico o di dogmatico, ma rappresenta
bensì l’affermazione della libertà e della fantasia, e quindi l’apologia della
fiducia nella capacità dell’uomo di cambiare ciò che è dato ed assegnato.
Tonko Maroević
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